Che succede ora che il diritto alla riparazione è realtà? Il parere dei parlamentari
di Martina Di Pirro – Giornalista freelance ed esperta in strategie digitali.
Con l’approvazione della risoluzione “Verso un mercato unico più sostenibile per le imprese e i consumatori” del 25 novembre, il Parlamento europeo ha accolto e sviluppato le indicazioni contenute nel nuovo piano d’azione per l’economia circolare adottato dalla Commissione europea l’11 marzo 2020, finalizzate all’introduzione di modelli innovativi di mercato per un consumo e una produzione con criteri sostenibili. Il piano, infatti, contiene una serie di interventi, anche legislativi, da attuare nei prossimi anni e inerenti l’intero ciclo di vita del prodotto con l’obiettivo di migliorarne durabilità, la riparabilità e la sicurezza. Insomma, è arrivato un primo passo da parte del legislatore europeo per la creazione di un’etichetta, apposta sulla confezione, in cui sarà indicato il grado di riparabilità di un prodotto.
“Mercato unico vuol dire protezione dei consumatori”, afferma Sandro Gozi, europarlamentare del gruppo Renew Europe e membro della Commissione per il mercato interno e la protezione dei consumatori. “Noi dobbiamo affermare un diritto alla riparazione per i consumatori, ed è materia strettamente legata al mercato unico. Bisogna che i consumatori siano ben informati sulla possibilità di riparare i prodotti. Lavorando categoria per categoria, deve diventare un diritto generalizzato nel mercato interno. Chiediamo quindi di stabilire principi di sostenibilità dei prodotti immessi sul mercato europeo, a partire proprio dal diritto alla riparazione, dalla cultura del riuso, dall’eliminazione delle pratiche commerciali scorrette. Il mercato unico europeo è il miglior risultato raggiunto dall’Ue fino ad oggi, ma dobbiamo adattarlo all’urgenza dettata dalla crisi attuale e alla visione che abbiamo del futuro dell’Europa“.
Dei passi avanti verso la sostenibilità dei prodotti da parte del Parlamento europeo erano già stati fatti con la con la risoluzione del 31 maggio 2018 sull’attuazione della direttiva sulla progettazione ecocompatibile (2009/125/CE), nota come direttiva Ecodesign o direttiva ErP. Si trattava di un invito ad ad andare oltre la sola efficienza energetica e a considerare anche tutte le altre caratteristiche di un prodotto che hanno un impatto sull’ambiente: composizione, durabilità, smantellamento, riparabilità e riciclabilità. L’80% dell’inquinamento ambientale e il 90% dei costi di produzione, infatti, sono il risultato di decisioni prese in fase di progettazione del prodotto.
“La Commissione ha presentato una sua nuova strategia per la tutela dei consumatori, e all’interno sono già contenute indicazioni che vanno nella direzione auspicata”, conclude Gozi. “In primis, proprio l’informazione obbligatoria per i consumatori e l’estensione a nuove categorie di prodotti delle norme della direttiva Ecodesign.” Secondo un sondaggio Eurobarometro, il 77 per cento dei cittadini dell’UE preferirebbe riparare i propri dispositivi elettronici piuttosto che sostituirli, mentre il 79 per cento pensa che i produttori dovrebbero essere obbligati a rendere “più facile la riparazione dei dispositivi digitali o la sostituzione delle singole parti”. In sostanza, più di tre quarti dei cittadini europei vuole riparare i prodotti ma è scoraggiato a farlo a causa dei prezzi di riparazione troppo alti e anche dalle scarse informazioni che riceve sulla durabilità del prodotto che acquista. Ora la decisione è in mano della Commissione europea, che dovrebbe creare un sistema di valutazione del grado di riparabilità di ogni prodotto tecnologico con un voto da 0 a 10. In questo modo si potrebbe capire quale impatto ha un determinato prodotto sull’ambiente.
“Riparare gli oggetti, anziché sostituirli o buttarli via, servirà ad avere anche meno rifiuti, soprattutto elettronici. Consumiamo troppe risorse e produciamo troppi rifiuti” ha affermato Anna Cavazzini del gruppo Verdi. Secondo le Nazioni Unite, infatti, gli europei producono più rifiuti elettronici di tutti al mondo. Lo racconta il “Global E-waste Monitor 2020”, il report delle Nazioni Unite che denuncia un record mondiale: 53,6 milioni di tonnellate (Mt) che potrebbero diventare 74 Mt entro il 2030, con un conseguente danno ambientale e di salute facilmente immaginabile a causa degli additivi tossici e delle sostanze pericolose come il mercurio. Un flusso in crescita continua, alimentato principalmente da tassi di consumo più elevati di apparecchiature elettriche ed elettroniche, brevi cicli di vita e poche opzioni di riparazione. Per dare un’idea della gravità di quanto riportato dalle Nazioni Unite, basti pensare che i rifiuti elettronici dell’anno scorso pesavano più di tutti gli esseri umani adulti in Europa, o come 350 navi da crociera delle dimensioni della Queen Mary 2, abbastanza per formare una linea lunga 125 km.
“La Commissione europea deve ora prendere questo slancio e andare avanti rapidamente nel 2021 su un punteggio di riparabilità a livello europeo per tutti i dispositivi elettronici e le regole di riparabilità, anche per i computer”, ha spiegato David Cormand, europarlamentare dei Verdi e primo firmatario della proposta di relazione. “Il mercato europeo è il primo mercato del mondo. Abbiamo il dovere di renderlo più sostenibile tanto per le imprese che per i consumatori. La Commissione deve introdurre il diritto di riparazione rendendo le riparazioni degli oggetti, soprattutto in campo tecnologico, più attraenti, sistematiche ed efficienti”.
Insomma, ora la Commissione europea ha il pieno sostegno del Parlamento nel portare avanti lo sviluppo di leggi volte a estendere la durata di prodotti e a introdurre un sistema di etichettatura obbligatorio per informare i consumatori sul livello di riparabilità dei prodotti venduti nei negozi e online.
Obsolescenza programmata: cos’è e perché va rimossa
La delibera del Parlamento Europeo ha ripreso in toto la legge francese contro l’obsolescenza programmata e ha unificato in un unico processo la necessità di rispondere con misure strutturali alla scarsità delle risorse naturali e all’aumento dei rifiuti. Quando si parla di obsolescenza programmata (detta anche pianificata), si fa riferimento ad una particolare strategia che, nell’economia industriale, viene impiegata per definire il ciclo vitale di un prodotto, così da limitarne la durata nel tempo. Una politica commerciale adottata dalle aziende produttrici che ha lo scopo di accorciare la vita naturale di un prodotto spingendo così il consumatore a comprare prima del tempo il modello nuovo.
E’ una pratica che, soprattutto negli ultimi anni, è salita all’onore delle cronache soprattutto per strumenti elettronici, quali cellulari, lavatrici, frigoriferi: una volta acquistato, dopo appena un paio di anni, gli aggiornamenti di sicurezza non vengono più rilasciati, le nuove applicazioni non sono più compatibili con il sistema operativo esistente e diventa così tecnologicamente vecchio. Una strategia industriale che è anche parte integrante del programma di studi delle scuole per progettisti e ingegneri ai quali viene insegnato il concetto di ciclo vitale del prodotto, un modo diverso di dire obsolescenza programmata.
In Francia già dal 2016 esiste una legge che considera reato le tecniche messe in atto dalle aziende per ridurre la durata di funzionamento di un prodotto al fine di aumentarne il tasso di sostituzione. Famosa è la diatriba con Apple: la giustizia francese aveva aperto un’indagine contro Apple per truffa e obsolescenza programmata dopo le ammissioni fatte dal colosso di Cupertino nel 2018 sul rallentamento delle batterie di alcuni modelli di iPhone per evitare spegnimenti improvvisi. Anche l’Antitrust italiano aveva acceso un faro su Apple e Samsung per l’affaire dell’obsolescenza programmata. L’Autorità garante della concorrenza e del mercato nel 2018 aveva deciso di avviare due distinti procedimenti per pratiche commerciali scorrette nei confronti delle società del gruppo Samsung e del gruppo Apple operanti in Italia a seguito di segnalazioni di consumatori e di un’attività preistruttoria svolta d’ufficio.
Il diritto alla riparazione in Italia
Ma vediamo come funziona il diritto alla riparazione oggi in Italia. Partiamo dal dato che, nel caso il prodotto risulti difettoso, il consumatore ha diritto a chiedere la sua riparazione o la sostituzione entro due anni dalla consegna del bene ed è previsto che nel manuale di istruzioni del prodotto ci siano informazioni precise sulla durata di vita del prodotto. Ma la scelta tra riparazione, sostituzione, rimborso non è ugualmente conveniente.
“Quando gli oggetti che possediamo diventano obsoleti, o hanno bisogno di parti di ricambio, ci rendiamo subito conto che ripararli o aggiornarli può non essere possibile oppure avere un costo troppo elevato”, afferma Ilaria Fontana, vicepresidente del gruppo Movimento 5 Stelle alla Camera, parte della Commissione ambiente, territorio e lavori pubblici e promotrice del progetto di legge ‘Diritto alla riparazione’. Fontana è stata, di fatto, tra le prime a parlare della possibilità di un diritto alla riparazione, portandosi in avanti anche rispetto al voto dell’europarlamento. “Ogni consumatore deve avere, al momento dell’acquisto il diritto alla riparazione, ovvero la garanzia di poter prolungare la vita utile del bene che sta per comprare. Il mio progetto di legge depositato alla Camera punta a creare un mercato di pezzi di ricambio integrato nei centri di raccolta comunali e nei piani di gestione dei rifiuti regionali. Ma anche semplificare il contesto normativo esistente consentire che la riparazione abbia gli stessi requisiti che esistono oggi per il riuso”.
Alcuni ricercatori hanno trovato qualcosa come 114 modi diversi di definire l’economia circolare, spesso però legati alla gestione dei rifiuti e non ad un nuovo modello economico. Il concetto tuttavia è chiarissimo: essendo il pianeta in una fase storica nella quale bisogna ridurre gli sprechi di materie prime e frenare la disoccupazione, bisogna assolutamente rispondere in maniera forte attraverso azioni in grado di invertire rotta. La transizione dal modello di crescita lineare legata al “prendi, produci, usa, getta” ad un modello circolare consiste nell’aumentare progressivamente la permanenza dei beni e delle risorse nel sistema economico, riducendo nel frattempo la domanda di nuove materie prime.
“In Italia manca una distinzione effettiva tra beni usati e beni riparati o ricondizionati” continua Fontana. “Un bene donato a un centro di raccolta non viene considerato rifiuto, mentre un bene che deve essere ricostruito rientra tra le operazioni di recupero del Testo Unico Ambientale ed è quindi un rifiuto a tutti gli effetti. Ora bisogna preparare il terreno affinché le nuove tecnologie e le nuove attività lavorative legate all’economia circolare prendano piede: basterebbe pensare a quale importanza avrebbe per le piccole aziende poter contare sugli acquisti verdi delle pubbliche amministrazioni, il cosiddetto Green public procurement (GPP), ovvero la possibilità per piccoli progetti su scala quasi artigianale di fare il grande passo verso una vera e propria industrializzazione”.
Il Piano Nazionale sul GPP prevede infatti dei Criteri Ambientali Minimi (CAM) da applicare anche per l’acquisto di prodotti elettronici, in modo da poter contare sulla pubblica amministrazione per beni più longevi e ambientalmente più sostenibili. L’Italia sta recependo il primo pacchetto di direttive europee sull’economia circolare: nuove norme in materia di gestione dei rifiuti che alzando i target minimi da raggiungere spingeranno verso la riduzione della produzione di rifiuti e quindi anche di una maggiore longevità dei prodotti.